“Per mero tuziorismo” dobbiamo occuparci di parole.

Il primo vocabolo che ho conosciuto quando ho iniziato la pratica forense è stato, appunto, “tuziorismo”.

            Il termine mi incuriosì, per quella fantasiosa vicinanza delle dentali che rendeva la pronuncia impegnativa.

            Appresi che il vocabolo aveva origine nelle riflessioni di un filosofo padovano del Cinquecento, ignoto ai più, tale Pietro Pomponazzi. Il Pomponazzi teorizzava infatti che l’uomo, fra più scelte possibili, deve optare per quella conforme alla legge in quanto più sicura, cioè “tutior” (Paolo Garbolino, “I fatti e le opinioni: la moderna arte della congettura“, Ed. Laterza).

            Mi dissero che nell’uso corrente il sostantivo indicava quello scrupolo professionale che spinge il difensore a proporre al Giudice argomentazioni ulteriori, accessorie rispetto a quelle principali già esposte.

            Da quel giorno iniziai a conoscere nuovi vocaboli ed espressioni: dopo “tuziorismo” arrivarono i vari “d’uopo”, “resipiscenza”, “diminuente”, “non v’è chi non veda”, “preme alla difesa”,  gli acronimi come “C.N.R.”, “AA.DD.”, “A.G.”, “C.T.P.”, “S.I.T.”, “V.P.O.”, i connettivi d’epoca come “invero”, “di talché”, “ebbene” e infine la varia mercanzia lessicale latina.

            Il vocabolario forense si scontrava però fin troppo spesso con la realtà linguistica dell’aula di udienza, nella quale imputati e testimoni ricorrevano a parole e costrutti molto più modesti e semplici.

            C’era dunque uno scarto linguistico tra fuori e dentro l’aula. Questa lontananza c’era (e c’è) in quanto il processo penale (tralascio per comodità la nota distinzione tra processo e procedimento) è una boscaglia densa di linguaggi e di comunicazioni, intricata e complessa per quantità e qualità delle voci.

            A partire dalle indagini preliminari fino all’aula dibattimento ci imbattiamo in una varietà linguistica davvero imponente: l’italiano giuridico, quello burocratico, quello tecnico-scientifico, quello popolare, quello dialettale, quello informale e trascurato, quello parlato dagli stranieri, quello gergale, quello giovanile e quello criptico della criminalità (secondo l’elenco delle varietà fondamentali di italiano proposto da  Gaetano Berruto in “Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo“, Carocci Ed., 2018).

            Gran parte di questo linguaggio viene prodotto oralmente e successivamente trasferito in vari testi, i quali registrano su carta tutto ciò che è accaduto oralmente (verbali, atti di denuncia e querela, brogliacci d’ascolto delle intercettazioni, trascrizioni…). Altra parte di questo linguaggio nasce direttamente in forma scritta, come gli atti difensivi, gli atti di polizia giudiziaria, gli scritti autografi di parte, le relazioni tecniche, le annotazioni, le comunicazioni, e via dicendo.

            In entrambi i casi si tratta di testi redatti da numerosi soggetti, spesso molto diversi tra loro non solo per funzioni e ruoli all’interno del processo, ma soprattutto per formazione culturale e professionale (avvocati, magistrati, cancellieri, personale di polizia giudiziaria, trascrittori…).

            Entrambe le tipologie presentano aree di rischio nelle quali può annidarsi l’errore, l’ambiguità.

            Per esempio i linguisti sanno ormai da tempo che la trascrizione di una dichiarazione orale  (oppure la sua sintesi in un verbale in forma riassuntiva) è una delle operazioni più complesse e, ovviamente, non è immune da pericoli, perché perdiamo definitivamente quell’ampia gamma di caratteristiche non verbali che sono proprie della oralità (le dimensioni cd. prosodica, paralinguistica e cinesica: le intonazioni, gli allungamenti vocalici, i toni di voce particolari, la velocità dell’eloquio, i silenzi, le pause – V. Fromkin, V. Speech Errors as Linguistic Evidence, 1973).

            Inoltre chi si occupa della verbalizzazione e della trascrizione di una comunicazione orale spesso non possiede adeguate competenze, nonostante gli sforzi personali. Questa situazione è dovuta alla carenza di un protocollo metodologico comune, fondato su un consenso scientifico largo, formalizzato in disposizioni normative specifiche.

            Negli Stati Uniti è stata istituita l’ATA (American Translators Association), che si rivolge a trascrittori, traduttori e interpreti forensi, garantendo loro formazione e aggiornamento professionale (attualmente si contano oltre 10.000 membri provenienti da oltre 103 paesi – https://www.atanet.org/).

            Come ha osservato la linguista Helen Fraser, se durante le indagini viene reperita una sostanza sconosciuta all’interno di una scena del crimine, essa viene trasmessa alla sezione specializzata in quanto non verrebbe mai in mente di analizzarla autonomamente nè tantomeno di chiedere un esame chimico al primo che passa. Nell’ambito linguistico, al contrario, si registra solitamente un approccio più domestico e autodidatta: per esempio, intercettazioni telefoniche scarsamente udibili vengono comunque sottoposte a una prima trascrizione (brogliaccio), effettuata da personale di polizia giudiziaria troppo spesso privo di competenze adeguate (H. Fraser, “Issues in transcription: factors affecting the reliability of transcripts as evidence in legal cases“, in International Journal of Speech Language and the Law, vol. 10, n. 2, 2007).

            Se queste sono le premesse ci dobbiamo chiedere quanta consapevolezza abbiamo della molteplicità e della complessità delle questioni connesse all’uso, alla trasformazione, all’analisi della lingua parlata e scritta nell’ambito giudiziario.

             Se nel giudizio penale si affollano e si intersecano infinite varietà di linguaggi e di comunicazioni, allora il rischio è che ogni negligenza si ripercuota nei successivi passaggi del processo con conseguenze spesso drammatiche nella vita delle persone.

            Purtroppo chi esercita professionalmente un qualsiasi ruolo nell’ambito giudiziario si spesso si trova del tutto abbandonato nell’impresa di orientarsi all’interno della selva di linguaggi che deve attraversare: si arrangia con le proprie competenze linguistiche, spesso inidonee, costruite da autodidatta, attingendo ad abilità e capacità intuitive del tutto personali.

            Trovo che sia giunto il momento che la comunità degli operatori del diritto vada incontro ad altri saperi, ad altre discipline, abbandonando quell’isolamento nel quale purtroppo si è chiusa. Siamo davvero convinti che possiamo esser capaci di orientarci senza il contributo della linguistica, della sociolinguistica, della dialettologia, della fonetica, della sociologia e di tante altre discipline?

            D’altronde uno dei più importanti linguisti, Ferdinand de Saussure, ammise che forse il linguaggio è una cosa troppo seria per lasciare che se ne occupino solo i linguisti. In effetti, di linguaggio se ne sono occupati matematici e fisici come Einstein o Richard von Mises, oppure filosofi come Aristotele e Wittgenstein.

            Non siamo esteti, nè grammarnazi. Il tema della lingua e della comunicazione nel processo penale non si riduce a questioni di stile o di estetica, ma è questione di sostanza. Il processo penale, perché sia “giusto” secondo i canoni costituzionali e sovranazionali, presuppone competenze linguistiche (generali e specialistiche), le quali sono strumento indispensabile per garantire trasparenza della prova, accessibilità democratica alla pubblicità del processo e un serio controllo di legalità.

            Oggi forse si impone una nuova questione della lingua.

            Questo vorrebbe essere dunque un luogo di riflessione collettiva, dove costruire un piccolo contributo a questo (utopico?) progetto.

            Va da sé che gli aggiornamenti da parte mia non saranno frequenti. Essi però non saranno una continua rifrazione di contenuti di altri siti, di altri gruppi. Farò in modo che siano sempre la sintesi di approfondimenti assolutamente personali, che ovviamente esigono i necessari tempi di elaborazione.

            Questo vi devo, per ragioni di onestà e serietà.

3 pensieri riguardo ““Per mero tuziorismo” dobbiamo occuparci di parole.

  1. Vi sono valide associazioni di traduttori in molti paese, che organizzano formazioni specifiche per i membri che sono specializzati in giuridico o C.T.U. In Francia la S.F.R., in Italia l’AITI, in Spagna l’ASETRAD, ecc. Riguardo l’ATA sono sicura che non ci sono trascrittori e che i traduttori iscritti non sono tutti giuridici.

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    1. Assolutamente: pur valide le associazioni elencate, purtroppo non bastano perché difetta una legislazione uniforme e protocolli operativi omogenei con la conseguenza, per talune cooperative, di una eccessiva superficialità e improvvisazione.

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  2. Ricordo quando con un GIP e un sostituto procuratore ci guardammo per un attimo smarriti quando una colf veneta, nel tentativo di giustificare i suoi scatti d’ira, affermava che un anziano signore gli nascondeva sempre i “ciapin”.. 😉

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