Tra il 960 e il 963 d.c. nei pressi di Cassino si celebrò un processo molto importante per quella comunità.
Il Giudice Arechisi era stato chiamato a stabilire i confini tra il monastero di Montecassino e le terre di un piccolo feudatario locale, tale Rodelgrimo d’Aquino.
L’Abate del monastero portò davanti al Giudice tre testimoni (due monaci e un notaio), i quali resero dichiarazioni favorevoli ai Benedettini.
A noi sono giunti quattro documenti di quell’antico processo: i cd. “placiti cassinesi”, conosciuti anche come “Placiti Capuani”, costituiti da quelle testimonianze giurate.
Rappresentano i primi documenti di un volgare riversati in un testo ufficiale scritto in latino.
Per dare una idea del tenore di queste testimonianze, il primo dei documenti riporta la seguente frase: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti” (“So che quelle terre con quei confini che qui [nella planimetria esibita al testimone] si contengono, le possedette per trent’anni la parte di San Benedetto”).
Questo testo rappresenta un verbale vero e proprio, cioè una “registrazione scritta di un discorso orale” (Helmut Ludtke, La nascita delle lingue scritte romanze, 1964).
Ma questo documento è importante per tre motivi, che dovrebbero interessare i giuristi.
Innanzitutto la dichiarazione testimoniale viene riportata sotto forma di discorso diretto: la frase inizia con il presente indicativo “sao”, cioè “Io so”.
In secondo luogo la testimonianza viene riprodotta testualmente, quindi integralmente in volgare. E’ il cd. “volgare testimoniale”, nel quale vengono conservati rigorosamente quegli aspetti dialettali appartenenti al soggetto parlante. Non vi sono correzioni, non vi sono aggiustamenti, nè adattamenti o interventi manipolatori tesi a “nobilitare” su un registro linguistico più formale (il latino o il volgare prediale) la specificità linguistica della dichiarazione.
In terzo luogo la scelta di inserire in un testo giuridico solenne una dichiarazione in lingua volgare è espressione di una idea molto moderna: tutti i documenti giudiziari, come anche le sentenze, erano scritti in latino. Anche il placito cassinese lo è, solo che a un certo punto il notaio “verbalizzante” invece di tradurre la testimonianza dal volgare al latino, ha deciso di riportare le parole dei tre testimoni esattamente così come venivano pronunciate dagli stessi, quindi in dialetto.
Il motivo di questa scelta, assolutamente rivoluzionaria, è chiaro: poiché i tre testimoni erano due chierici e un notaio “si presume che sarebbero stati in grado di pronunciare la dichiarazione in latino. Se questo non è stato, evidentemente era stato ritenuto opportuno far conoscere il contenuto a tutti quelli che erano presenti al giudizio” (G. Sanga, S. Baggio, “Il volgare nei Placiti cassinesi“, in “Rivista italiana di dialettologia“, 1994).
Quindi era stata avvertita la necessità che il processo, per la rilevanza che aveva all’interno di quella comunità, venisse compreso da tutti.
Se il giudice Arechisi avesse ascoltato quei testimoni oggi, le loro dichiarazioni sarebbero state registrate in un verbale e sarebbero state sottoposte a un adattamento linguistico, traducendole così in un’altra voce.
L’oralità trasformata in scritto è il fenomeno linguistico più frequente nel processo penale. Ciò che viene prodotto oralmente viene successivamente o contestualmente trasformato in testo scritto e questa trasformazione è ciò che rimarrà del processo: le verbalizzazioni e le trascrizioni sono ciò che verrà studiato dalle parti e dal Giudice, potranno essere citate, riportate, menzionate nel corso dell’esame incrociato, nelle arringhe, nelle memorie difensive, negli atti di impugnazione, nelle sentenze. La prova è orale, ma si deposita per iscritto.
Di ogni processo ciò che resta è sempre la parola scritta, quella che Carmelo Bene definiva la “voce scritta”.
Ma com’è questa “voce scritta“?
Nei verbali redatti nel corso delle indagini preliminari, così come in quelli redatti in occasione delle indagini difensive, la dichiarazione orale subisce una fortissima trasformazione.
Siamo cioè lontani da quella consapevolezza linguistica che iniziava a emergere nell’Italia longobarda del 963 d.C.: a differenza di allora, oggi assistiamo invece a una lingua della verbalizzazione che prende il posto della dichiarazione orale.
Questo italiano “in divisa” lo leggiamo tutti i giorni nei verbali di sommarie informazioni: quante volte abbiamo letto di un testimone che, a dispetto della umile estrazione sociolinguistica, dichiara di essersi “recato presso la privata dimora di Caio, non prima d’aver contattato Sempronio sull’utenza mobile n….“.
Nel corso di un processo, trasmesso da “Un giorno in pretura”, una testimone riferisce i maltrattamenti ricevuti dall’imputato:
Giudice: “Allora signora, la maltrattava?“
Testimone: “No, maltrattav..,no, ei faceva baruffa…ma poi ci siam sposati..eh faceva più..ei veniva a casa e faceva baruffa…avea.. certe volte eran parole, de ste cose non so niente, io all’inizio a casa.. poi da mamma per via de’la baruffa a casa..tornava a casa e faceva baruffa…ei…baruffa“.
Possiamo immaginare come questa dichiarazione sarebbe stata riportata in un verbale, laddove il soggetto verbalizzante avrebbe dovuto impadronirsi di una competenza linguistica dialettale che probabilmente non gli era propria, quantomeno per comprendere il significato del sostantivo “baruffa” (indica un semplice, per quanto aspro, litigio o anche un’aggressione?).
Italo Calvino denunciò tutto ciò il 3 febbraio 1965, quando scrisse sul quotidiano “Il Giorno” un articolo, intitolato “L’Antilingua”.
Lo scrittore immaginò un testimone che, seduto davanti al brigadiere, rendeva la seguente dichiarazione:” Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per berlo a cena. Non ne sapevo nulla che la bottigliera sopra era stata scassinata”.
Il brigadiere, impassibile, iniziò a battere rapidamente sui tasti della macchina da scrivere la fedele verbalizzazione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara di essere casualmente incorso nel ritrovamento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto quotidiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta infrazione dell’esercizio soprastante”.
Calvino traeva da questa storiella di fantasia alcune considerazioni.
“Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quella che definirei il «terrore semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se «fiasco» «stufa» «carbone» fossero parole oscene, come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente“.
L’allarme lanciato da Calvino è ancora attuale.
L’adozione nella verbalizzazione di una “lingua in divisa” ha molte conseguenze sul piano linguistico e processuale.
Sappiamo quante volte nel corso del dibattimento il testimone, dopo aver ascoltato la lettura della dichiarazione riportata nel verbale, faccia fatica a riconoscerla come propria, anzi spesso abbia persino difficoltà a comprenderne il significato. Nell’aula di udienza qualcuno si stupirà, qualcuno solleverà dubbi sulla credibilità del teste, qualcun’altro ammonirà il testimone: “Guardi che quelle sono parole sue! Come fa a non ricordare?“.
Ecco, quella dichiarazione, nel modo in cui è stata verbalizzata, alla fine potrà pure esser confermata dal testimone, ma talvolta solo perché costui riconoscerà la firma apposta sul verbale, ricordando in realtà poco o nulla di quanto ebbe a riferire in sede di indagini o di investigazioni difensive.
Quella dichiarazione scritta potrà essere utilizzata dal Giudice per la decisione, citata in vario modo dalle parti nelle varie fasi e nei vari gradi di giudizio.
Peraltro la dichiarazione spesso viene riportata nel verbale mediante il ricorso alla prima persona singolare (a differenza dell’esempio di Calvino), quindi nelle forme del discorso diretto.
Sotto un profilo linguistico questa è una modalità rischiosa: riportare una dichiarazione sotto forma di discorso diretto presuppone la garanzia della piena aderenza del discorso riportato a quanto realmente dichiarato in forma orale. E’ una stipulazione di autenticità, senza mediazioni, che in realtà difetta.
Chi riporta una dichiarazione altrui nel modo diretto compie una precisa operazione: “introduce a parlare” qualcun’altro e le virgolette di distanziamento sanciscono proprio l’ingresso della voce autentica. Il discorso diretto sembra fatto apposta per perdere di vista il suo carattere di parola riprodotta.
La riflessione che si potrebbe trarre da queste osservazioni è che nella verbalizzazione (a differenza della trascrizione, che però presenta ben altre questioni) il soggetto verbalizzante opera comunque l’interpretazione della parola altrui, attuando delle variazioni anche inconsapevoli.
Le variazioni sono inevitabili perché connesse ai fattori della comunicazione e, soprattutto, alla cd. “situazione del discorso”, cioè ai presupposti e agli scopi della comunicazione (nel nostro caso formali, destinati a esser portati nell’ambito di un processo). Il soggetto verbalizzante dunque tenderà a “normalizzare” la parola orale ascoltata, ad adeguarla all’atto nella quale sarà riportata (un verbale) e agli scopi impliciti in questo atto (l’utilizzabilità nel processo).
Solitamente la mediazione del verbalizzante avviene su più livelli: facendo passare l’enunciazione da un dialetto, da una interlingua usata dal testimone straniero, a un modello standard di lingua nazionale; mutandone spesso il registro; mutandone il contenuto laddove a una parola pronunciata in dialetto o secondo una varietà linguistica non standard viene riportata nel verbale una parola, diversa, necessariamente “altra” anche nel significato.
Ascoltare e capire colui che parla è trasporre il suo pensiero nel nostro: questa è una regola alla quale nessuno può sfuggire.
Terracini scriveva che quando si riporta un discorso si riproduce innanzitutto l’immagine che di questo ci si è fatti: la verbalizzazione non è altro l’immagine della parola orale riflessa in uno specchio e lo specchio può essere più o meno deformante, più o meno limpido (B. Terracini, “Il problema della traduzione”, Milano, 1983, pp. 11-15).
Ecco perchè il ricorso nella verbalizzazione al discorso diretto è una finzione linguistica. Il discorso diretto non può che essere “solo una fictio, che permette alla dichiarazione di funzionare come ri-produzione del vero delle altrui enunciazioni: e la finzione è quella di considerare la dichiarazione ‘come se’ fosse parola del testimone, facendo dissolvere la mediazione del verbalizzante” (B.M. Garavelli, “La parola d’altri“, Sellerio, 1985, p. 83; G. Nencioni, “Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato“, in “Strumenti Critici”, 29, pp. 1-56).
Con il discorso diretto non si ha la percezione che la dichiarazione verbalizzata sia stata già “mediata” e si tende a ritenere che essa sia assimilabile al discorso primario reso in forma orale.
Durante la lettura di un verbale di sommarie informazioni (o di ricezione di una denuncia-querela) sarebbe pertanto opportuno che fossimo in grado di puntare l’attenzione anche sulle mediazioni alle quali è stato sottoposto il discorso primario [orale]. Quantomeno dovremmo esserne consapevoli.
Mediazioni che costituiscono irriflessive manipolazioni delle dichiarazioni rese, a maggior ragione se pronunciate da testimoni analfabeti o da cittadini stranieri “che poco intendono la lingua italiana e che non sanno affatto servirsene per proprio conto” (Lodovico Mortara, Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura Civile, Milano, Vallardi, 1923).
Ecco perché sarebbe forse necessario che qualsiasi dichiarazione venisse fonoregistrata e venisse sempre conservato il dato sonoro.
Finché tale esigenza non verrà percepita, si potrebbe proporre (provocatoriamente) che nella redazione dei verbali si faccia ricorso alle forme del discorso indiretto (dove l’intervento manipolatorio del verbalizzante è palese), piuttosto che a quello fittizio, diretto.
Queste sono considerazioni introduttive e non pretendono di esaurire il tema, che è ampio e complesso e sicuramente meriterà ulteriori riflessioni.
Ho sempre firmato mie dichiarazioni tradotte in uno standard “poliziese” e “avvocatese”. Spesso quindi ho firmato testi che, a fronte di tali forzature, suonano ridicoli, stranieri e, in parte, lontani dalla verità. Eppure questo è fonte di serenità. Sembra infatti l’unica via per credere minimamente alla futura efficacia delle mie dichiarazioni. Perchè queste saranno introdotte in un iter su cui non eserciterò alcun controllo e genereranno solo analisi standard e risposte standard, avulse dalla ricerca della verità. Tranne in “Law & Order”, credo
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Certamente. In realtà l’effetto “confort zone” suscitato dall’antilingua è a questa connaturato.
Credo però che l’adesione a questo registro determini da un lato una sorta di adeguamento ad automatismi (anche di pensiero) che potrebbero essere rischiosi, dall’altro livelli inferiori di leggibilità e di capacità comunicativa e persuasiva del testo. Anche in Law and Order, sono certo.
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