“Signor Presidente, Signori Giudici,
c’è un punto, un punto solo in cui mi trovo perfettamente d’accordo con gli egregi rappresentanti della parte civile e del pubblico ministero. È nell’omaggio alla memoria del principe dei criminalisti italiani, che sarà tramandata ai posteri da monumenti di marmo e di bronzo, ma che meglio di tutto è resa imperitura dal grandioso monumento di sapienza che egli si eresse colle opere sue. Francesco Carrara fu sommo e venerato maestro: ed auguro che la giovane generazione s’inspiri a quell’altro concetto del giusto e del vero, di cui Egli fu apostolo tanto eloquente. In tutto il resto, Signori, non vado né posso andare d’accordo. (Biblioteca del Foro Penale Italiano, “Arringhe di illustri avvocati” – Napoli, Ernesto Anfossi Ed., 1890, p. 131).
“Signor Presidente, Signori Giudici,
senza aggettivazioni o appellativi particolari, perché il termine giudice, secondo la mia concezione, è denso di significato altamente morale e non ha necessità di inutili abbellimenti. Giudice è chi depone sentimenti e risentimenti, antipatie e simpatie, idee preconcette nate dalla pubblica opinione. Giudice è chi si inchina difronte al dubbio, giudice è chi si mortifica nel ripensamento delle proprie opinioni, giudice è chi affronta, prima ancora della prova, la critica di se stesso. E, solo così, il suo giudizio veste dignità umana e scientifica” (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, “Scritti di Luciano Revel”, p. 29).
Sono gli incipit di due arringhe pronunciate a distanza di circa 100 anni.
La prima fu esposta dall’avvocato Giuseppe Ceneri il 18 gennaio 1888 davanti al Tribunale Civile e Correzionale di Bologna in difesa d’un imputato, accusato d’aver scritto una lettera minatoria al Marchese Alfonso Malvezzi.
La seconda fu pronunciata nel febbraio del 1979 avanti la Corte Costituzionale dall’avvocato Luciano Revel, in difesa di Camillo Crociani, coinvolto nello scandalo Lockheed.
Se oggi un difensore avviasse la propria discussione in aula con parole simili, probabilmente verrebbe invitato dal Giudice a non divagare.
Il nuovo codice di procedura penale ha costituito una novità importante sotto molti profili, compreso quello delle competenze linguistiche che sono richieste alle parti processuali.
In epoche passate, come si può notare dalle due arringhe riportate, la discussione finale era il momento in cui un avvocato esibiva tutta la propria abilità retorica. Il nuovo codice ha introdotto un freno alle vecchie libertà oratorie.
L’art. 523 c.p.p. va in questa direzione quando stabilisce, tra l’altro, che il Presidente dirige la discussione e “impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione”. Con questo articolo è stata revocata la cittadinanza a una serie di figure retoriche e modelli argomentativi proprie dell’oratoria forense più tradizionale.
L’art. 523 c.p.p. vieta, di fatto, il ricorso all’anafora, che consiste nel ripetere la stessa parola all’inizio della frase. Dante Alighieri, se avesse iniziato un arringa con il celebre anaforico del III Canto di “Inferno”, senza dubbio sarebbe stato ammonito (“Per me si va ne la città dolente,/per me si va ne l’eterno dolore/ per me si va tra la perduta gente”), in buona compagnia con Cecco Angiolieri e il suo “S’i fosse foco”.
Anche la figura dell’ “amplificazione” è cauta sotto la mannaia dell’art. 523 c.p.p. Se nell’aula del dibattimento oggi si alzasse in piedi Giovanni Battista Vico, costui sarebbe invitato a contenersi qualora dicesse: “Cotesti occhi tuoi sono formati alla impudenza, il volto all’audacia, la lingua agli spergiuri, le mani alle rapine, il ventre alla ingordigia, i piedi alla fuga: dunque sei tutto malvagità” (G.B. Vico, Delle istituzioni oratorie). La enumerazione di circostanze, parti e aspetti del medesimo tema trattato non risulterebbe gradita.
Parimenti verrebbe sanzionata come indecorosa dall’art. 523 c.p.p. la “metabole”, cioè la ripetizione di una stessa idea per mezzo di parole diverse, le quali paiono correggersi progressivamente l’un l’altra attraverso una maggiore precisione semantica: “Andò, corse, volò via per intervenire in aiuto della povera vittima”.
Eppure la necessità della ripetizione spesso deriva proprio dalla natura del discorso, il quale nel nostro caso è di tipo persuasivo e argomentativo. Se si dovesse procedere a una meccanica dimostrazione basata unicamente su criteri logici, non ci sarebbe bisogno di ripetere parole o alcuni passaggi argomentativi poiché nella logica la falsità di una sola premessa dispensa dall’esame delle altre: nell’argomentazione questa dispensa non funziona, per quanto possa essere invitato a non ripetermi e a non esaminare le altre premesse. (Perelman-Tyteca, “Trattato dell’argomentazione”, Einaudi, 2001, pagg. 184-185).
L’esclusione della “ripetizione” dal perimetro della discussione processualmente ammissibile ai sensi dell’art. 523 c.p.p. deriverà da una valutazione assolutamente discrezionale del Giudice. A fronte di casi nei quali verrà impedita ogni effettiva ripetizione dei medesimi argomenti e delle medesime parole, non possiamo ignorare come la esperienza quotidiana ci abbia consegnato anche casi nei quali viene sanzionato il ricorso a figure retoriche e tecniche argomentative nelle quali la ripetizione non proviene dalla negligenza dell’oratore ma è elemento essenziale al tipo di discorso persuasivo messo in atto.
La conseguenza è stata, ed è, la esclusione dalla discussione di gran parte di quel patrimonio linguistico e argomentativo che si è formato nel corso di secoli.
Ciò che che ha caratterizzato “lo stile dell’oratoria forense dall’Ottocento agli ultimi decenni del Novecento è l’istruzione del pathos nel dominio del lógos e dell’êthos: anche l’esposizione di fatti e circostanze, anche le indagini e le illazioni sugli atteggiamenti, le inclinazioni erano intrise di pathos. […]. Un cambiamento di impostazione, e perciò anche di stile, è stato determinato dalle regole del dibattimento poste dal nuovo codice di procedura penale. La perorazione appassionata, culmine della foga oratoria, lascia il posto a una severa, contenuta esortazione al Collegio giudicante, oppure all’enunciazione serrata e consequenziale delle conclusioni. È la rivincita del lógos, del rigore dimostrativo, sugli usi devianti dell’emotività” (B.M. Garavelli, “Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani”, Einaudi, 2001, pagg. 207-209).
Questo cambiamento tuttavia si è verificato nonostante la classe forense sia rimasta spesso avvinta a stili e modelli espositivi tipici del passato, con continue frizioni con il disposto dell’art. 523 c.p.p.
In pratica non è stato attuato un corrispondente aggiornamento linguistico degli operatori del diritto, né si è pensato di adeguare in tal senso la formazione prevista nelle facoltà di Giurisprudenza.
Nei curricula scolastici di molte università inglesi, statunitensi, australiane e giapponesi sono regolarmente previsti corsi finalizzati a potenziare le capacità critico-valutative e le capacità argomentative degli studenti. In Italia manca un percorso formativo che eserciti al ragionamento critico, alla elaborazione rapida di risposte critiche, alla valutazione della attendibilità di tesi e argomenti (A. Cattani, “Esortazione alla teoria e alla pratica dell’argomentazione. Una modesta riproposta”, Diritto e Formazione, Giuffrè, Milano, anno 3, fasc. 4, 2003, pagg. 655-666).
In attesa che anche l’Italia decida di allinearsi alla proposta formativa di gran parte degli altri Paesi, forse è utile ricordare Platone, il quale, stigmatizzando i sostenitori della brevità e concisione a tutti i costi, sosteneva che la sola ampiezza valida di un discorso persuasivo è che questo sia conforme a una giusta misura (Platone, Fedro, 271, D-E).
Sappiamo tuttavia che la giusta misura può consistere anche nel tacere.