
Tempo fa ho riascoltato una parte del processo “Enimont”.
A un tratto Craxi utilizza la locuzione “risorse aggiuntive”.
Rivolgendosi a Di Pietro dice infatti:
“Le interessa sapere dunque…le dimensioni delle risorse aggiuntive di cui il Partito Socialista dispone”.
Evidentemente Craxi voleva eludere lo scottante termine “tangenti”.
In successive e altrettanto note vicende giudiziarie veniva impiegata la locuzione “cene eleganti” con finalità parimenti elusive.
Queste riflessioni m’hanno ricordato un libro molto interessante, di qualche anno fa: “Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani” di P.P. Giglioli, S. Cavicchioli e G. Fele.
Lo studio sollecitava, tra l’altro, l’approfondimento di una questione, che dovrebbe esser di nostro interesse.
Se nella vita quotidiana è preferibile impiegare sinonimi, altrettanto non lo è nel processo penale, dove il sinonimo talvolta può esser questione non solo di forma ma anche di contenuto.
Questo avviene perché la sinonimia perfetta tra due parole è estremamente rara. Si verifica solo se la corrispondenza opera su più livelli (referenziale, distribuzionale, segnico e grammaticale). Fuori da queste corrispondenze il sinonimo è sempre una soglia, più o meno ampia, verso un diverso significato: nell’attraversarla spesso non ci rendiamo conto che ci stiamo allontanando dalla prima parola.
E’ noto come spesso i difensori ricorrano a sinonimi per attuare strategie di vera e propria elusione di un tema o di una domanda, così da “velare” la comunicazione. Penso al testimone abilmente reticente, oppure alla parte che porta avanti la propria tesi unicamente giocando con polisemie e sinonimie.
Nell’aula di udienza, al contrario, v’è la necessità di precisare in modo incontestabile i significati di talune parole, perché esse costituiscono le vere regole del gioco, in quanto solo attraverso di esse e al significato convenzionalmente attribuito che si giungerà all’accertamento di un fatto.
E’ vero che il diritto e il processo esigono definizioni univoche, tuttavia una parte potrebbe avere l’interesse a opacizzare il significato di alcuni termini, sfumandone i confini del “significato”, mentre l’altra parte potrebbe avere l’interesse opposto, cioè quello di impedire questa “elusione semantica”.
Ecco che tra accusa e difesa possono nascere dispute di tipo lessicale.
Si pensi al caso in cui, per esempio, la difesa anziché “si appropriava” utilizzi la frase “entrava in possesso”, sottraendosi così all’implicazione giuridica che deriverebbe dall’utilizzo del termine “appropriazione”, utilizzato nella tipizzazione del reato di cui all’art. 646 c.p.
Così può accadere che gli avvocati si vestano da novelli linguisti, da battaglieri cruscanti. E questo accade perché il dibattito processuale tra le parti ha per oggetto non solo “cosa si dice” ma anche, e soprattutto, “come si dice”.
Talora accade che il conflitto lessicale venga risolto con varie forme di accordo, di negoziazione, di cooperazione, ma tale esito dipende dalla capacità dei singoli attori e dalla pazienza del Giudice.
Il Giudice, infatti, può governare la disputa invitando le parti a un accordo circa il significato da attribuire a un termine.
Altrettanto frequentemente si viene redarguiti, si è invitati a non perder tempo su queste cose: il conflitto viene abbandonato, viene risolto per rinunzia.
Ciò è indicativo del fatto che purtroppo le abilità e le consapevolezze linguistiche di avvocati e magistrati sono espressione di personali attitudini, spesso non adeguatamente formate ed educate.
La conseguenza è una incapacità diffusa nella identificazione del cd. “sinonimo elusivo” e nella percezione della necessità di risolverlo.
Il sinonimo elusivo rischia in questo modo di passare inosservato: esso viene in tal modo tollerato, registrato, poi trascritto e infine cristallizzato negli atti processuali.
Esso rischierà di essere una bussola guasta. Potrà ri-orientare il senso di una narrazione, deviare la interpretazione di altri termini, a partire da quelli più contigui. Potrà così mutare i contenuti delle dichiarazioni e, infine, cambiare la narrazione dei fatti, cioè i fatti stessi.