Secondo i dati dell’associazione che si occupa dei più piccoli e che sul tema ha lanciato la petizione “Abbattiamo il muro del silenzio” (https://www.savethechildren.it/campagne/abbattiamo-il-muro-del-silenzio), in 5 anni ben 427.000 minori in Italia avrebbero assistito a fatti di violenza domestica.
Quando questi fatti vengono portati all’attenzione di un Giudice, le dichiarazioni testimoniali rese dal minore possono costituire un elemento di prova determinante per l’esito del processo.
Per molto tempo si è caduti nell’inganno che i bambini non potessero essere una fonte affidabile di informazioni. Studi recenti, in particolare in psicologia e psicolinguistica, dimostrano che i minori possono essere testimoni affidabili. Tuttavia l’attendibilità delle loro risposte dipende strettamente dalle modalità con le quali viene condotta la stessa raccolta delle dichiarazioni (Oxburgh, Myklebust e Grant, “The question of question types in police interview: a review in literature from a psychological and linguistic perspective”, in International Journal of Speech, Language and the Law, vol. 7, 2010).
Questo avviene, in primo luogo, perché i minori tendono ad attribuire agli adulti che conducono l’esame qualità come “lealtà” e “affidabilità”, con la conseguenza che potrebbero tendere ad assecondare la narrazione del fatto implicita nella domanda dell’adulto, rinunciando a far valere la propria.
Inoltre è noto come i minori (soprattutto quelli fino a 10 anni) potrebbero avere difficoltà a distinguere i propri ricordi dagli scenari suggeriti con la domanda, ciò in quanto dispongono di una capacità di ricordare ancora in via di sviluppo, come d’altronde le loro abilità comunicative e linguistiche (M. Aldridge, “Vulnerable witnesses in the Criminal Justice System”, in M. Coulthard and A. Johnson, in “The Routledge Handbook of Forensic Linguisics”, 2010 con significativi esempi di crisi di cooperazione nella comunicazione adulto-minore).
Per evitare condizionamenti da parte dell’adulto nel corso della assunzione di informazioni, si è tentato di elaborare modelli tendenzialmente neutri, sul presupposto teorico che l’esaminatore possa evitare di influenzare la dichiarazione del minore.
Numerosi studi di linguistica forense, in particolare di analisi conversazionale, hanno tuttavia dimostrato l’impossibilità di una conversazione “neutra”, nella quale cioè nessuno dei due interlocutori condiziona l’altro nel corso della interazione.
Si tratta di una conferma di uno dei principi più noti della meccanica quantistica, che può esser curiosamente applicata anche alle comunicazioni umane: il processo di misura – e con esso l’osservatore che la compie – non è in alcun modo scindibile dall’oggetto misurato. C’è di più: l’osservatore stesso addirittura perturba irrimediabilmente e irreparabilmente l’osservabile.
Di recente una interessante ricerca condotta dall’Università di Amsterdam ha dimostrato come sia necessario costruire modelli di “intervista” dei minori partendo proprio da questo presupposto, riconoscendo cioè che l’adulto che raccoglie le informazioni influenza necessariamente il minore e viceversa (G. Jol, F. van der Houwen, “Police interviews with cild witnesses”, in “The International Journal of Speech, Language and the Law”, 2014, vol. 1, pagg. 113 e segg.).
Lo studio si è concentrato su numerose assunzioni di informazioni condotte tra giugno 2008 e dicembre 2010 in ambito giudiziario nei confronti di minori con età compresa tra i 6 e i 10 anni.
La ricerca, in particolare si è concentrata sull’analisi di domande-tipo che iniziano con l’avversativa “MA”.
L’esame è stato condotto con l’approccio metodologico dell’analisi conversazionale (ad es. Heritage e Clayman 2010), con la quale vengono analizzate le modalità con le quali gli interlocutori interagiscono, le espressioni verbali utilizzate, il linguaggio non verbale seguito e in generale ogni dato inerente la relazione comunicativa.
L’apertura di una domanda con il “MA” quali condizionamenti può determinarne nella risposta del minore?
È stato accertato che tale avversativa comunica al minore un giudizio da parte dell’esaminatore circa la inadeguatezza o insufficienza della risposta ricevuta, con la conseguenza che il minore si sente sollecitato a fornire un’altra informazione, modificando la precedente. L’adulto, in sostanza, dichiara incongruente o non accettabile la risposta fornita.
È stato inoltre osservato che il ricorso a questa apertura nel formulare le domande consente all’adulto di comunicare la propria insoddisfazione senza fornirne alcuna motivazione. Tale modalità induce il minore a sentirsi inadeguato nella interazione e responsabile del fallimento del proprio atto comunicativo. Come è stato acutamente sottolineato, l’attacco in “MA” comunica un turbamento rispetto a un’aspettativa, turbamento che può essere eliminato solo da colui che fornirà la risposta adeguata, cioè il minore, chiamato a risolvere l’empasse (A. Fasulo, “L’epistemica della conversazione: quando le domande iniziano con E o con MA”, in “Lingua e società”, Ed. FrancoAngeli, 2018, p. 29).
L’incipit avversativo può consentire altresì all’adulto di riformulare una propria domanda in modo certamente più preciso rispetto alla precedente, chiedendo cioè informazioni più dettagliate: con tale modalità, tuttavia, l’adulto chiarisce di fatto cosa fosse mancato nella risposta del minore e lo induce in tal modo a fornire proprio il contenuto sollecitato.
Poiché è lo stesso adulto che valuta se e quando le risposte siano soddisfacenti, se e quando esse meritino di esser precisate e integrate, il ricorso a questa tipologia di domande rafforza la natura asimmetrica dell’interazione (nella quale cioè uno degli interlocutori attivi svolge anche il ruolo di regista).
Uno degli obiettivi della ricerca condotta dall’Università di Amsterdam è stato innanzitutto quello di illustrare come non esista dunque una conduzione cd. “neutra” dell’assunzione di informazioni dai testimoni minorenni.
Una piccola particella avversativa all’inizio della domanda può aver conseguenze rilevanti nella interazione. Sebbene sfugga continuamente nella lettura della trascrizione di un esame, essa non è irrilevante, tutt’altro.
Basterebbe poco, concludono i ricercatori olandesi, per contenere questi effetti distorsivi.
La richiesta al minore di ulteriori precisazioni potrebbe essere adeguatamente formulata dall’adulto aprendo la domanda con la particella “E”. I vantaggi sarebbero evidenti: essa è particella che coordina e non avversa, che pone il minore su di un piano paritetico e non asimmetrico con l’adulto.
Tutto ciò evidenzia ancora una volta come la partecipazione a qualsiasi atto processuale necessiti sempre di competenze non solo giuridiche ma anche linguistiche.