Nell’arringa il silenzio può sembrare un ospite innaturale, una presenza contraddittoria. Nel momento in cui all’avvocato è riservato uno spazio unico nel processo per ormeggiare i propri argomenti alla parola, stupisce che possa ricorrere al silenzio, che della parola appare il contrario.
Gli studiosi hanno affrontato la questione della natura del silenzio secondo vari modelli epistemologici (fonetico, psicologico, filosofico, linguistico, solo per citarne alcuni). Tra queste, una particolare branca della linguistica pragmatica, cioè l’analisi conversazionale, fornisce spunti molto interessanti.
Applicando il glossario dell’analisi conversazionale, innanzitutto, potremmo dire che l’arringa è un turno di parola convenzionalmente assegnato a uno degli interlocutori nel processo, cioè l’avvocato. Costui occupa il proprio turno davanti al Giudice, il quale è sia destinatario dell’atto comunicativo sia “regista” dell’interazione, secondo la nota definizione elaborata da Franca Orletti nel celebre studio “La conversazione diseguale”. È il Giudice-regista, per esempio, che apre e chiude l’interazione, esercita il controllo sui temi della discussione, ritiene sufficiente quanto esposto dall’avvocato e chiude il suo turno, invitandolo a terminarlo. Il codice di procedura penale non appare estraneo a questa definizione linguistica di “regista”, che risulta magistralmente sintetizzata nell’art. 523 comma 3 c.p.p.: ” Il presidente dirige la discussione e impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione”.
Nell’ambito di questo speciale turno il silenzio costituisce un vero e proprio atto comunicativo.
Non potrebbe essere diversamente. D’altronde il comportamento umano non ammette un proprio opposto: non è possibile non avere un comportamento, e dunque non è possibile non comunicare (P. Watzlawick, J. Beavin, D. Jackson, “Pragmatica della comunicazione umana”, 1967).
Secondo gli studiosi il silenzio può essere “eloquente”. E’ eloquente quel silenzio che costituisce un atto comunicativo scelto dal parlatore per comunicare il proprio messaggio (Saville-Troike, Muriel, “The place of silence in an integrated theory of communication”, 1985).
Molte possono essere le funzioni “retoriche” del silenzio. Si tratta di funzioni che inquadrano il silenzio come atto comunicativo “interno” alla strategia persuasiva dell’arringa.
Un silenzio breve, come la pausa, può svolgere una funzione sintattica: può costituire cioè, al pari dei segni di interpunzione nel testo scritto, un segnale utile all’ascoltatore per comprendere l’impalcatura della comunicazione, e quindi rilevare l’apertura di un periodo o la sua chiusura per esempio.
Una ulteriore funzione “retorica” del silenzio può essere quella della focalizzazione di alcuni temi. E’ l’ipotesi in cui alcune parole o alcune frasi vengano pronunciate dopo e seguite da un silenzio: “E allora io non posso che pronunciare una frase, che palpita fin dall’inizio di questa arringa senza che sia mai stata esplicitata: [silenzio] egli è innocente [silenzio]. E non lo è solo alla luce degli elementi di prova…” (brano tratto da un’arringa pronunciata nel corso di una udienza). La frase “egli è innocente” è preceduta e seguita dal silenzio, che la estrae dal flusso comunicativo ponendola in rilievo. Quel silenzio ha una funzione precisa, quella di “focus”, cioè di marcatura enfatica che sottolinea il tema di maggior interesse di un enunciato. È una dislocazione quasi fisica rispetto al resto.
Altra tipologia di silenzio è quella che si colloca funzionalmente “fuori” dall’arringa. E’ un silenzio particolare che solo gli avvocati conoscono.
E’ quella volontaria interruzione dell’arringa cui ricorre l’avvocato quando perde l’attenzione del Giudice, quando si accorge che il destinatario principale delle sue parole appare momentaneamente “uscito” dalla interazione (pensiamo a quando un cancelliere chiede qualcosa al Giudice, deviandone momentaneamente l’attenzione su altro). L’avvocato si interrompe, il Giudice percepisce l’interruzione e fa cenno di proseguire. Il canale comunicativo è ripristinato.
In termini di analisi conversazionale si tratta di una cd. “mossa forte”, operata dal detentore del turno nei confronti del regista, cioè del Giudice.
E’ un atto comunicativo che, per dirla con i linguisti, assume due funzioni: referenziale e conica.
E’ un silenzio innanzitutto con funzione referenziale perchè costituisce una proposizione circa il mondo circostante: il Giudice non sta ascoltando più. E’ un atto comunicativo al suo grado Zero: omettendo materiale fonologico, il parlatore veicola un significato referenziale. Ciò è ottenuto mediante una ridondanza silenziosa e il suo contrasto con il resto della comunicazione. E’ una comunicazione nella sua forma minima. E’ una pagina bianca o nera in un testo scritto, come nel racconto di Laurence Sterne, “La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo” quando nel primo volume, al capitolo 12 viene incorporata una intera pagina nera.
Questo silenzio potrebbe avere anche una funzione conativa.
Secondo Jakobson la funzione conativa consente di riattivare il ruolo del destinatario, allo stesso modo del ricorso a un vocativo o a un imperativo. Al centro di questa funzione del silenzio vi è, dunque, un nuovo atto di identificazione del destinatario mediante una riattivazione del suo ruolo nella comunicazione (M. Ephratt, “The functions of silence”, Journal of pragmatics, 40, 2008: “the conative function centers on speech acts: the use of words – and here eloquent silence – to activate the addressee”). Il silenzio qui riconsegna per un attimo il turno al Giudice, il quale lo restituisce non appena sarà terminato il momento di “distrazione”.
E’ un atto comunicativo che rientra a pieno titolo in quello che Sacks, Schegloff e Jefferson hanno definito come momento interattivo di gestione del turno, una sorta di richiesta di prosecuzione del turno da parte del soggetto che lo sta detenendo. Questo silenzio attiva il destinatario, lo invita a prendersi il turno per consentirci di proseguire e, contemporaneamente, siamo noi stessi che riattiviamo in questo modo un canale comunicativo che si era interrotto.
Tramite un atto di cortesia nei confronti del nostro interlocutore, operiamo una mossa forte (“Eloquent silence is a discourse marker within the conative function; it activates the addressee to take the floor, namely to take responsibility in leading the discourse: its progression or its termination – M. Ephratt, “The functions of silence”, Journal of pragmatics, 40, 2008).
E’ l’atto di ristabilimento della cooperazione, peraltro realizzato nell’osservanza delle massime di Grice: il silenzio con il quale si ripristina il canale comunicativo è un atto informativo quanto basta (1a massima), è rispettoso della qualità (2a massima), è pertinente al tema (3a massima) ed evita l’ambiguità (4a massima).
Ecco dunque che questo silenzio riparatore ha una funzione strutturale nella comunicazione dell’arringa. Ristabilisce la effettività del turno di parola: tale funzione di armonizzazione e di riequilibrio, spesso attuata dall’avvocato in modo spontaneo e inconsapevole, costituisce un atto comunicativo estremamente complesso. Esso, in termini più generali, è il necessario presupposto alla più autentica realizzazione dell’arringa alla quale sia l’oratore che il destinatario devono partecipare, attuando un riconoscimento dell’altro, che non può prescindere dall’ascolto reciproco.
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