Qualche giorno fa il Presidente Conte ha comunicato all’Italia l’entrata in vigore di stringenti limitazioni alle libertà delle persone.
L’evento è stato trasmesso in diretta televisiva e doveva costituire un momento topico nella comunicazione politica, nel quale l’esigenza di farsi intendere era condizione essenziale per poter indurre tutti a una spontanea osservanza delle nuove disposizioni.
Questo tipo di risultato, spesso, lo si raggiunge curando anche la gestualità oltre al testo del messaggio, ciò in quanto circa il 75% delle informazioni che raggiungono la nostra corteccia cerebrale passa attraverso gli occhi (quindi attraverso una comunicazione non verbale). Nell’ambito della comunicazione non verbale le mani sono senza dubbio, dopo il volto, la parte più espressiva e comunicativa del corpo.
Osservando il video del messaggio pronunciato del Presidente Conte, la comunicazione non verbale sembra poco curata, le sue mani restano in ombra.
Il Presidente, infatti, siede a un tavolo sulla cui traversa frontale è collocato il rituale, ampio piatto raffigurante l’emblema della Repubblica italiana (ruota dentata, rami di ulivo e di quercia e la stella), circondato dalla dicitura “Consiglio dei Ministri – Palazzo Chigi”.
In quella posizione, tuttavia, quell’emblema istituzionale occulta e disturba gran parte della gestualità dell’oratore.
L’elemento iconografico, infatti, copre soprattutto le mani di Giuseppe Conte quando costui le appoggia sul tavolo, posizione assunta per gran parte dell’intervento. Pur nascoste dai simboli della Repubblica le mani sembrano spesso congiunte, con le dita intrecciate, in una sorta di confidente invito alla comprensione, alla collaborazione. E’ la postura che Desmond Morris ha definito il gesto del “tenersi le mani”, finalizzato a scaricare la tensione che attraversa l’oratore.
Altre volte da dietro il plateu sembra che le mani siano poste a guglia, appoggiate orizzontalmente sul tavolo, postura anche questa indicativa di un richiamo alla collaborazione dell’ascoltatore (come rilevò l’antropologo Ray Birdwhistell nei propri lavori sul linguaggio del corpo).
Tutto troppo difficile da osservare per essere percepito efficacemente.
Talvolta però Giuseppe Conte alza le mani oltre lo stemma, le allarga con un movimento ampio, rendendole finalmente visibili per pochissimi secondi, in corrispondenza di passaggi cruciali della comunicazione.
Compiuto il rapido abbraccio, tuttavia, le mani si inabissano nuovamente oltre l’emblema repubblicano, che diventa una vera e propria quinta di palcoscenico, dietro la quale le dita possono continuare a intrecciarsi protette da sguardi indiscreti.
In interessanti studi di linguistica e semiotica è stato evidenziato come l’utilizzo di entrambe le mani nel corso di una comunicazione spesso sia il risultato di una scelta molto consapevole (per il coinvolgimento di una più intensa attività cerebrale nel coordinamento della gestualità “bilaterale”) e accompagni la trattazione di tematiche di carattere più generale-sintetico e meno analitico (L. Anderson, L. Cirillo, “Embodied argument: the role of co-expressive gesture in spoken academic discourse” in “Parlare insieme – Studi per Daniela Zorzi”, Bononia University Press). Nei medesimi studi si sottolinea anche come la gestualità delle mani con movimenti sull’asse orizzontale sia spesso caratteristica di una comunicazione rivolta a un uditorio ampio e non face-to-face, poiché i movimenti laterali godono di una maggiore visibilità.
Questa occupazione della spazialità laterale è quella che risulta maggiormente messa in atto dal Presidente Conte. Tuttavia la complessiva gestualità, lungi dall’essere fluida, viene continuamente spezzata, segmentata dall’ingombro visivo dell’emblema istituzionale.
La comunicazione non verbale si produce, dunque, secondo una costante scomposizione del movimento, in una scissione del gesto, come quello teorizzato da Majakovskij nella figura dell’attore-marionetta. Qui, però, a differenza dello spettatore del teatro anarchico russo, il cittadino medio rischia di trovare difficoltà nel recepire il messaggio: il suo desiderio di vedere tutto, costantemente soddisfatto in questa impenitente età dell’homo videns, viene oggi frustrato da una quinta di teatro che occulta, ingombra.
Insomma, quella che viene amputata è la cinesica della comunicazione, vale a dire la gestualità che accompagna il parlato, studiata già a partire dagli anni Cinquanta, ma da sempre praticata.
Leggendo un testo molto stimolante, intitolato “Storia dell’italiano scritto – Italiano dell’uso“, leggo che anche i predicatori itineranti del Quattrocento ricorrevano costantemente alla cinesica, trovandosi nella necessità di visitare luoghi lontani e di farsi comprendere da persone che non conoscevano la loro lingua.
Giovanni da Capestrano, per esempio, pronunciava i propri sermoni accompagnandoli da una gestualità efficace che aveva il dichiarato scopo di consentire a chiunque di comprendere il senso principale del discorso. Sembra che la stessa predicazione di Francesco d’Assisi fosse caratterizzata da una gestualità di tipo teatrale, da alcuni interpretata come un recupero delle tecniche giullaresche.
Bernardino da Siena, nelle prediche in Piazza del Campo, era solito descrivere la riservatezza della casa di Maria indicando con un ampio gesto della mano la finestra del vicino palazzo del Podestà, cosicché “poteva vedere altrui e non era veduta lei”.
Non so come avrebbero reagito Giovanni da Capestrano o Bernardino da Siena se fosse stato proposto loro di parlare in pubblico nella stessa posizione assunta da Conte durante il proprio intervento. Si dice che soprattutto il francescano senese avesse un carattere fermo e poco incline agli accomodamenti.
Certo è che questa riflessione mi fa comprendere uno dei motivi per i quali l’avvocato, quando prende la parola in aula, ha il dovere di alzarsi.
Non intervengono solo primarie esigenze di rispetto per il Giudice e le altre parti processuali, ma anche molto più prosaiche necessità che l’intera figura dell’oratore sia visibile e goda di libertà nei movimenti, che verrebbero impediti e ingolfati se il difensore parlasse seduto al tavolo, magari coperto dalle voluminose carte del fascicolo, come le mani di Conte nascoste dal plateau con lo stemma della Repubblica.
Un celebre avvocato un giorno disse: “Grazie Giudice, ma preferisco parlare in piedi, diversamente rischierei di comunicarLe meno della metà di ciò che vorrei” (Arringhe di illustri avvocati e processi celebri – Ed. Anfossi, Napoli, 1890).
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