Anche se la riforma del processo penale a distanza sembra momentaneamente depotenziata (la cautela è doverosa), prosegue la proposta di una lista di parole che avremmo perso e di quelle, di nuova introduzione nel lessico forense, con le quali abbiamo già dovuto fare i conti.
EPIDEMIA
Il termine transita dall’area biologica a quella burocratica.
«Viste le misure urgenti adottate per contrastare l’epidemia», «considerate le misure straordinarie adottate per contenere gli effetti dell’epidemia» sono incipit di circolari, protocolli, comunicazioni, note di Tribunali, ordinanze di differimento delle udienze.
«Epidemia» è la premessa, la formula che giustifica l’adozione degli eccezionali poteri esercitati nell’amministrazione della giustizia.
Seguendo il tipico stile commatico degli atti, la parola «epidemia» viene reiterata a ogni capoverso ed esplicita l’antefatto del morbo.
E’ un narrazione espositiva, elencatoria, informativa, priva di logica argomentativa: l’ epidemia deve giustificare, non persuadere.
FATTO
Il lemma «fatto» appare un forestierismo nel nuovo lessico processuale: il fatto è oggetto di giudizio virtuale.
Così potrebbe accadere che il fatto contestato nel capo d’imputazione rischi di costituire l’ultima ombra di un corpo vero, quello dell’imputato, per quanto deviante.
Il fatto dell’imputato potrebbe essere l’ultimo vessillo del garantismo penale, quello più intriso di tridimensionalità: nullum crimen sine actione.
Gli altri assiomi, nell’ordine elaborato dal Ferrajoli (nulla actio sine culpa, nulla culpa sine iudicio, nullum iudicium sine accusatione, nulla accusatio sine probatione e nulla probatio sine difensione) rischiano infatti di subire lo stesso destino del magistrato e dell’avvocato, cioè d’esser riconvertiti in una dimensione impalpabile.
GARANZIA
Nei corposi provvedimenti normativi che recentemente sono stati emessi il lemma «garanzia», con le sue più strette parentele morfologiche (garante, garantire), ricorre circa 90 volte.
In tutti questi atti viene prescritto, appunto, di garantire i livelli occupazionali, di garantire la protezione dei dati personali, di garantire la distribuzione dei dispositivi di protezione individuale e, ancora, si garantisce l’assistenza sanitaria, si garantiscono misure per il sostegno del reddito.
Curiosamente, però, la parola «garanzia» non ricorre mai con riferimento alla materia del processo penale a distanza.
Per disciplinare questa materia il Legislatore usa un sinonimo, cioè «salvaguardare». L’ormai noto art. 83 comma 12-bis prescrive, infatti, che «lo svolgimento dell’udienza avviene con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti».
La scelta del sinonimo potrebbe non esser casuale.
«Garanzia» è termine che implica una protezione assoluta, temporalmente congenita al riconoscimento del diritto garantito, secondo uno schema epistemologico, prima che linguistico, che sterilizza l’insorgenza di ogni rischio contro quel diritto.
La garanzia è tale quando, una volta predisposta, non possono neppure verificarsi le condizioni minime di rischio di lesione. Corrisponde, cioè, al «massimo grado di limitazione della potestà punitiva e di tutela della persona contro l’arbitrio» (Ferrajoli).
«Salvaguardare», invece, è parola che indica la tutela in uno stadio cronologicamente successivo all’insorgenza potenziale del rischio.
Il lemma è estraneo alla Costituzione, la quale garantisce i diritti, non si limita a salvaguardarli.
Ecco dunque il motivo per cui nella previsione del citato art. 83 il contraddittorio non è garantito ma salvaguardato.
La scelta di demandare a specifiche «modalità» telematiche la tutela del contraddittorio e della partecipazione al processo significa ammettere la concreta insorgenza di rischi di lesione di quei diritti: assunto ragionevole ove si consideri, per tacer d’altro, interruzioni, alterazioni e disturbi vari nel collegamento.
Tali accortezze informatiche possono solo tenare di salvaguardarci, non di garantirci dai rischi di un ritorno all’inquisitorio.
IDENTITA’
Probabilmente nessun altro termine ha subito una così vasta mutazione semantica nel passaggio dal reale al virtuale.
Le procedure di identificazione storicamente sono sempre state espressione esclusiva dell’esercizio del potere da parte di una pubblica autorità.
Già nell’Europa di metà Seicento l’identificazione consisteva in un atto che presupponeva la compresenza del pubblico potere identificatore e del privato cittadino identificato.
Un’impronta di questa necessaria relazione spaziale tra i due soggetti la troviamo nell’art. 66 c.p.p., laddove l’atto identificativo dell’imputato da parte dell’autorità giudiziaria si compie in praesentia: «nel primo atto in cui è presente l’imputato, l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità».
Nel processo da remoto la smaterializzazione dei luoghi ha allentato la relazione tra atto identificativo e spazio.
Non essendovi più compresenza tra imputato e giudice, quest’ultimo può recuperare questa comunanza spaziale solo mediatamente e può procedere cioè all’identificazione cedendo il proprio potere a quei soggetti che si trovano effettivamente nel medesimo luogo dell’identificando: a identificare sarà l’avvocato nei confronti del proprio assistito libero, sarà l’ufficiale di polizia giudiziaria nei confronti dell’imputato arrestato o fermato.
Gruppo “Giustizia A Parole – Appunti di Linguistica Giudiziaria”: https://www.facebook.com/groups/1352326014931521/?ref=share
Riferimenti Bibliografici
Buono, Le procedure di identificazione come procedure di contestualizzazione, 2014, 35-65
Ferrajoli, Diritto e Ragione. Teoria e pratica del garantismo penale, 2002, 6