Il linguaggio dei D.P.C.M.

Il linguaggio dei testi normativi, a qualsiasi livello di fonte di produzione del diritto, spesso manca l’obiettivo di essere comprensibile. Uno dei tanti esempi è costituito dai noti D.P.C.M. Pubblichiamo alcune considerazioni linguistiche del Prof. Claudio Giovanardi, Professore Ordinario di Linguistica Italiana all’Università Roma Tre.

I DPCM anti-Covid di Giuseppe Conte: qualche riflessione su lingua e comunicazione pubblica

Claudio Giovanardi

Il DPCM è una fattispecie di atto legislativo balzato alla ribalta pubblica in questi tristi tempi di pandemia innescata dal Coronavirus Sars-CoV-2 (questa la corretta dicitura scientifica, anche se ormai tutti lo chiamiamo Covid, abusando di un acronimo inglese che in realtà significa “malattia da Coronavirus”). Nella percezione pubblica (grazie anche alla fanfara dei media) il DPCM appare come l’erede dell’antico istituto dell’editto, ovvero come un qualcosa immediatamente esecutivo e svincolato da successive ratifiche. Finalmente, insomma, tra il capo e il popolo s’instaura un filo diretto, senza che sia necessaria la mediazione di scribi e sacerdoti, quei competenti, insomma, così poco di moda fino a qualche settimana fa.
Tutti ricorderanno le attese ansiose che Conte comparisse davanti ai teleschermi per dettare la linea illustrando i contenuti dei vari decreti; e Conte, quasi come un attore consumato, si faceva attendere per ore, salvo poi assumere un tono oracolare nel dispensare divieti e ammonimenti.
Il DPCM è uno strumento utilizzato per fare fronte a situazioni emergenziali, e necessita di un dettato chiaro, immediatamente fruibile da tutti. Proprio perché fortemente impattante sulle abitudini di vita quotidiane e sulle scelte dei cittadini in merito non solo alle misure sanitarie da osservare, ma addirittura relativamente al numero e alla qualità delle persone da poter frequentare (ogni riferimento alla bizzarra formula dei congiunti è puramente voluto) questi DPCM, e sottolineo almeno questi DPCM, avrebbero dovuto essere improntati a una chiarezza linguistica ed espositiva a dir poco cristalline. Ma il condizionale passato che ho appena usato, avrebbero dovuto, fa subito intendere che, almeno per me, questo fondamentale requisito democratico di trasparenza comunicativa non c’è stato. Trovo questo fatto particolarmente grave, e cercherò di spiegare brevemente il perché.
Agli atti legislativi più consueti pubblicati regolarmente in Gazzetta difficilmente il cittadino “normale” ha un accesso diretto, ma, il più delle volte, vi è chi fa da interprete tra il “legalese” e lui stesso (gli scribi e i sacerdoti, appunto). Insomma l’interpretatio legis è, ad esempio, una delle funzioni fondamentali che si demandano al proprio avvocato. Naturalmente non sempre si accede alla Gazzetta Ufficiale col proprio avvocato al seguito; in alcuni casi, infatti, per un determinato testo di legge si ha una competenza specifica, anche se circoscritta. Penso ad esempio al bando di un concorso, la cui consultazione è desultoria e mirata soprattutto ad alcuni articoli specifici: requisiti di partecipazione, tempi e modalità della presentazione della domanda e dei titoli, possibili motivi di esclusione.
I testi di legge, infatti, appartengono al gruppo dei testi regolativi o prescrittivi: si tratta di testi che, per la loro stessa costituzione, non necessitano di una lettura integrale, ma piuttosto selettiva. Si parva licet, pensiamo al “bugiardino” dei farmaci: credo che, al di là di sempre possibili perversioni, a nessuno salti in mente di leggerlo per intero, ma solo nelle parti più direttamente operative: modalità di assunzione, effetti collaterali e così via.
Ma i DPCM di Conte (in ragione dell’emergenza sanitaria) avevano un carattere diverso: pretendevano, per chi non si accontentava delle sommarie indicazioni ricavate dalla televisione, una lettura diretta, perché si doveva capire se e come ci si poteva spostare da casa, dove fare la spesa, se si poteva raggiungere la seconda casa, se si poteva andare a trovare la mamma anziana residente fuori comune o fuori regione. Ma, ancor più dettagliatamente, si dovevano spulciare gli allegati per capire la distanza tra i tavoli in un ristorante, quante persone potessero entrare in un negozio, quali caveat dovessero essere esposti sulle vetrine dei negozi, come dovesse sistemare i banchi in chiesa il povero curato di città o di campagna. Per non dire del numero massimo di invitati e della loro configurazione anagrafica con cui poter brindare a Natale o a Capodanno.
Una precettistica minuziosissima, occhiuta, da conoscere articolo per articolo, comma per comma, sillaba per sillaba. La legge è nuda di fronte al cittadino: non ci sono mediazioni, non ci sono gli scribi e i sacerdoti pronti a interpretare la Scrittura sacra. Da un lato la legge con le sue parole, dall’altro il cittadino che deve (dovrebbe?) capirle e trasformarle in azioni conseguenti.

Come deve essere scritto un testo per risultare facilmente comprensibile a una platea di milioni di persone molto variegata per bagaglio di conoscenze pregresse e livello d’istruzione? Deve essere ispirato a criteri di chiarezza, di pertinenza, di corretta sequenzialità logica. Più in particolare, deve poggiare su due capisaldi: una sintassi snella, di stampo eminentemente paratattico, e un lessico il più possibile comprensibile, il che non significa, attenzione, semplificato, ma depurato di inutili tecnicismi burocratizzanti. Del resto questo non è certo un tema nuovo. All’inizio degli anni Novanta giuristi e linguisti illuminati (penso, fra tutte, alle figure di Sabino Cassese e Tullio De Mauro) posero con forza il problema della semplificazione linguistica nei testi della pubblica amministrazione. Furono elaborati manuali di stile, linee guida, raccomandazioni operative: ma tutto è rimasto, almeno in gran parte, lettera morta.

Ma è tempo di venire alla ciccia, come direbbe un conferenziere americano. Preciso che, per ragioni di brevità, limiterò la mia analisi a un solo DPCM, ma che le considerazioni svolte si attagliano perfettamente a tutti gli altri consimili. Avrò anche modo di accennare, sia pure di sfuggita, al recentissimo DPCM di Draghi.
Il DPCM del 3 dicembre 2020, passato alla storia come il DPCM di Natale, esordisce con il seguente articolo, di cui riporto il primo comma:

  1. Ai fini del contenimento della diffusione del virus COVID-19 è fatto obbligo sull’intero territorio nazionale di avere sempre con se’ dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all’aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande, e con esclusione dei predetti obblighi
    a) per i soggetti che stanno svolgendo attività sportiva
    b) per i bambini di età inferiore a sei anni
    c) per i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina, nonché per coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità.

Mamma li turchi!, si sarebbe detto una volta. Non saprei da dove cominciare, perché tante sono le cose da osservare in un numero così contenuto di parole. Mi chiedo solo, così, di passata, se il professor Conte, alle prese con una tesi di laurea di un suo studente scritta con questo “stile”, sarebbe rimasto impassibile. Ho qualche dubbio.
La prima frase presenta già qualche criticità da diversi punti di vista. “Ai fini del contenimento della diffusione del virus COVID-19” tre volte la preposizione del/della /del, e poi perché ai fini, se il fine è uno solo?, e ancora una grave (perché si tratta pur sempre di un testo di legge) imprecisione, perché il virus non si chiama, come dicevo poco fa, COVID-19. Ma il peggio sta per venire, perché il periodo che segue sarebbe stato scelto da un Italo Calvino redivivo come triste esempio di un brutto “burocratese”. Sorvoliamo sull’impettito è fatto obbligo, ma non sulla perifrasi finto-tecnica dispositivi di protezione delle vie respiratorie, la cui finta tecnicità è dimostrata dal fatto che poche righe sotto si dice di uso della mascherina. Allora delle due l’una: o dispositivi di protezione delle vie respiratorie è un iperonimo rispetto a mascherine, nel senso che non tutti i dispositivi sono necessariamente mascherine, come non tutte le abitazioni sono appartamenti, e allora è sbagliato usare il termine mascherine, oppure è un sinonimo, ma se è un sinonimo, allora perché usare quella faticosa perifrasi, dal momento che si dispone del trasparentissimo mascherine?
Ma più ci inoltriamo nel testo, più le difficoltà aumentano. Il ragionamento si inerpica quando si comincia a enumerare le eccezioni all’uso della mascherina. Rileggiamo:

nonché obbligo di indossarli [i dispositivi] nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all’aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande

Intanto noto la passione sfrenata dell’estensore del testo per la congiunzione nonché, che gli deve essere apparsa, in questo come nei precedenti DPCM, particolarmente glamour, visto l’uso esclusivo che ne viene fatto. In realtà, per un semplice gusto di variatio, sarebbero perfettamente intercambiabili altre soluzioni come e anche, e inoltre, per non dire di una struttura correlativa come sia… sia, ma mi rendo conto che anche il “legalese” ha le sue predilezioni. Continuo sottolineando la vaghezza di una formulazione come a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi. Cosa si intende con caratteristiche dei luoghi e quali potrebbero essere le circostanze di fatto richiamate? Il modo continuativo che misura di tempo è? Dieci minuti, un’ora, una settimana? La condizione di isolamento richiama una condizione fisica o psichica? Che diamine vuol dire condizione di isolamento? Forse si voleva dire una distanza sufficiente? Io credo che quando un testo legislativo suscita così tanti interrogativi interpretativi in così poche righe è evidentemente un testo mal concepito e peggio scritto. Proseguiamo con quel salvezza, che forse è un tecnicismo (non trovo però traccia di accezioni tecniche nei vocabolari), ma che avrebbe potuto essere sostituito da osservanza o rispetto, assai più congrui. Dopo di che dobbiamo cercare di capire il nesso che lega l’isolamento di una persona in un parco davanti ad estranei alle attività economiche produttive, amministrative e sociali di cui si invoca la salvaguardia dei protocolli, insieme ai protocolli per mangiare e bere. La realtà è che il collegamento sintattico attraverso la coordinata copulativa e comunque con salvezza dei protocolli non funziona perché è troppo debole. Ci sarebbe voluta una cesura più forte, che provo a riprodurre come segue (lasciando per il resto tutto inalterato):

nonché obbligo di indossarli [i dispositivi] nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all’aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi. In ogni caso è obbligatorio il rispetto dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande

Il punto fermo separa due movimenti sintattici e semantici indipendenti che, nella versione originale, vengono invece a confondersi creando un cortocircuito interpretativo. Ma dove l’estensore ha superato sé stesso è nella terza condizione che esenta dall’obbligo della mascherina. La richiamo:

d) [esenzione dell’obbligo] per i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina, nonché per coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità.

Qui, me ne darete atto, si sfiora davvero la comicità pura. Dopo l’immancabile nonché, si individua una categoria a dir poco bizzarra, ovvero coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità. Al di là dal goffo uso del verbo versare riferito a una incompatibilità, io, per quanto eserciti la mia fantasia, non riesco a immaginare quale tipo di interazione possa impedire a chi assiste un malato o un disabile di indossare la mascherina. Mi viene in mente solo la respirazione bocca a bocca, ma non so se è questa la fattispecie cui pensava il legislatore.

Che si posso fare di meglio è testimoniato dal recentissimo DPCM del 2 marzo 2021 a firma Draghi, al quale ho solo potuto dare un’occhiata rapida, ma quanto basta per cogliere subito significative differenze. La predetta lettera d) è così riformulata nel DPCM Draghi (si sta parlando, ricordo, di esenzione dall’uso della mascherina):

[sono esentate] le persone con patologie o disturbi incompatibili con l’uso delle mascherine, nonché [questa congiunzione sembra inevitabile] nonché le persone che devono comunicare con un disabile in modo da non poter fare uso del dispositivo.

Fiat lux!, mi verrebbe di dire. Non so se ci sarà veramente il cambio di passo promesso sui vaccini e il piano di investimenti, ma mi pare che un cambio di passo in fatto di competenza linguistica già ci sia stato.

Ma torniamo al DPCM Conte. I passaggi poco perspicui sono diversi. Leggiamo la seguente frase (siamo al comma 4): è vietato, nell’ambito del territorio nazionale, ogni spostamento in entrata e in uscita tra i territori di diverse regioni o province autonome. Non sarebbe stato meglio scrivere “nel territorio nazionale è vietato ogni spostamento tra regioni o tra province autonome”. Quel diverse regioni, infatti, suona ambiguo, perché in italiano diverso può essere usato anche come aggettivo indefinito, e quindi diverse regioni potrebbe valere alcune regioni, svariate regioni. Secondo questa interpretazione, quindi, il divieto di spostamento da un territorio all’altro potrebbe valere per alcune regioni sì e per altre no. Bisognerebbe sempre tener presente il principio aureo attribuito a Michelangelo per cui l’arte dello scultore sta nel togliere e non nell’aggiungere materia. Più si aggiunge materia, in questo caso linguistica, e più la figura, in questo caso il divieto, si fa meno chiaro e meno visibile.

Piuttosto nebuloso anche il comma 5 che riporto per intero:

  1. Delle strade e piazze nei centri urbani, dove si possono creare situazioni di assembramento, può essere disposta per tutta la giornata o in determinate fasce orarie la chiusura al pubblico, fatta salva la possibilità di accesso e deflusso agli esercizi commerciali legittimamente aperti e alle abitazioni private.

Intanto notiamo la strana costruzione inversa con anteposizione del complemento di specificazione (delle strade e piazze) al predicato (può essere disposta la chiusura). L’inversione sintattica era un artificio stilistico amatissimo dai poeti barocchi, ma non ci aspetteremmo di trovarla in un testo di legge. Aggiungo che in italiano si accede a un luogo, ma si defluisce da un luogo; quindi accesso e deflusso agli esercizi commerciali non funziona. Ma soprattutto a me sembra violato il principio di non contraddizione logica: se un luogo è chiuso non vi si può entrare, o sbaglio? Altrimenti si dovrebbe parlare di “regolamentazione degli accessi”, non di chiusura per assembramenti. Allora più o meno bisognava scrivere

  1. Onde evitare situazioni di assembramento, in alcune strade o piazze dei centri urbani può essere disposto per tutta la giornata o in determinate fasce orarie l’accesso e il deflusso regolamentato del pubblico.

E chi se ne importa se l’accesso è per andare in un negozio o a casa propria.

Potrei continuare a lungo ma non voglio maramaldeggiare su questo “italicorum” sgangherato. Dico solo che i tre princìpi cardine della teoria della comunicazione, ovvero l’efficacia, l’efficienza e l’appropriatezza sembrano spesso vacillare. Però come cittadino, prima ancora che come linguista, non posso non esprimere il mio rammarico di fronte a una comunicazione così sciatta e opaca in un testo come il DPCM, la cui importanza regolatrice nelle abitudini quotidiane degli italiani ho già messo in evidenza all’inizio. Perché non si vuole capire, come diceva Nanni Moretti in un famoso film, che se si parla (in questo caso scrive) male, si pensa male e si vive male? Possibile, mi chiedo, che la Presidenza del Consiglio dei ministri non disponga di un servizio di consulenza linguistica? Possibile che nessuno butti un occhio sul testo finale, considerato anche che certe “scivolate” possono essere il frutto di successivi tagli e ricuciture delle varie bozze che si susseguono? Eppure, lo accennavo prima a proposito del DPCM Draghi, basterebbe impegnarsi un po’ per tornare a una lingua in grado di farsi comprendere. Invece in questo disinteresse per la forma, in questa colpevole sciatteria, in questi atteggiamenti noncuranti sta una delle cause del degrado e del declino della nostra lingua. Se il diritto, che è il tempio della parola, si presenta con queste vesti linguistiche, a dir poco rattoppate, che futuro ci aspetta?

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