IL CRIMINE E L’ESCLUSIONE SOCIALE

Le recenti proteste in molti istituti penitenziari dovuti all’emergenza epidemiologica pongono nuovamente il problema di quale statuto assegnare oggi ai luoghi e al tempo del carcere nel nostro Paese e nell’intera società occidentale. Molti hanno già scritto autorevolmente sul punto.

            Conosciamo il disinteresse che da tempo la politica manifesta nei confronti della condizione carceraria, disinteresse che riflette una percezione diffusa nella società contemporanea, quella che equipara il criminale a colui che è stato espulso dalla comunità civile, destinatario dell’infamia e del bando collettivi. In questa rappresentazione, dunque, il carcere continua a restare un luogo osceno nel senso di «ob-sceno», escluso cioè dalla narrazione ufficiale di un Paese.

Il nesso tra il concetto di crimine e quello di esclusione sociale trova numerose conferme, già studiate da tempo, sintetizzabili in alcune curiose coincidenze in tre campi diversi del sapere: l’etimologia, la sociologia e l’iconografia.

Il crimine e l’etimologia che esclude.

Nella secondo metà dell’Ottocento il linguista svizzero Adolphe Pictet fa pubblicare l’opera Les Origines indo-européennes, dal sottotitolo interessante: Essai de paléontologie linguistique.

Il sottotitolo sintetizzava un manifesto: poiché le «parole durano quanto le ossa», i linguisti assomigliano molto ai paleontologi. Similmente a questi ultimi, che tramite lo studio dei reperti fossili «riescono non soltanto a ricomporre l’animale, ma anche a istruirci sulle sue abitudini, la sua maniera di muoversi, di nutrirsi», anche i linguisti possono ricostruire «lo stato materiale, sociale e morale del popolo che ha prodotto l’idioma».

            Nel parte dell’opera dedicata alla terminologia giuridica Pictet si occupa proprio dell’etimologia della parola crimine.

            Esso deriva dall’omologo latino crimen che significa, secondo i dizionari, tanto l’accusa che il delitto. Presenta cioè una connotazione sia dinamico-processuale che sostanziale. Crimen è l’accusa, l’imputazione, l’incriminazione ma è anche delitto, il fatto illecito commesso. Nelle locuzioni latine tipiche incontriamo entrambe le accezioni: sia «in crimine esse» cioè «essere sotto accusa», che «agnoscere crimen» cioè «riconoscere il proprio crimine»; sia gli «argumenta criminis» cioè le «prove a sostegno d’una accusa», che «crimen maiestatis» cioè il «delitto di lesa maestà».

            Nello stesso celebre Dizionario della lingua italiana Nicolò Tommaseo sottolinea questa duplicità semantica: crimen è sia il fatto «che suole esser punito con pene dette criminali, cioè afflittive o infamanti», sia «l’accusa».

            Nell’opera Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, il filosofo Giorgio Agamben afferma che questa ambivalenza avrebbe una giustificazione: crimen significa tanto l’accusa che l’azione delittuosa perché esso significa contemporaneamente entrambe, indica cioè quel nesso che lega le due dimensioni. Crimen è l’azione già compiuta (aspetto sostanziale), che pertanto è già entrata nella dimensione dinamica e processuale della punibilità, della necessità di una conseguenza punitiva.

            Non è irrilevante che lo stesso termine latino crimen derivi dal verbo cerno, che significa sì «decidere», ma anche «discernere, distinguere, vagliare» e, pertanto, «separare, dividere»: secondo Agamben ciò che viene separato, ciò che viene diviso implica l’idea di un limite che viene superato, di una soglia che è stata varcata socialmente. Crimen dunque è quell’azione umana che ha passato una soglia, ha oltrepassato il perimetro della comunità civile, quel varco che la rende meritevole di conseguenze sanzionatorie.

            I concetti di «separazione», di «limite», di «soglia» trovano evidenze anche nel verbo del greco antico «krino» (κρίνω), che conta come primo significato quello di «separare, dividere, distinguere» e, solo come secondo gruppo di significati, quelli di «decidere, sentenziare, giudicare, proferire sentenze».

            Una suggestiva conferma ci proviene proprio dallo stesso linguista Adolphe Pictet nell’opera citata all’inizio, laddove individua l’etimologia di «crimen» nel «sanscrito karman, opera in generale, fatto umano compiuto, buono o cattivo».

            A prescindere dall’esattezza linguistica della proposta di Pictet, è certamente affascinante l’accostamento di «crimen» con «karman».

            E’ opinione comune che il termine karman, che significa letteralmente «azione», implichi una connessione tra l’atto, l’opera umana e le conseguenze (Silburn Lilian, «Istante e causa: la discontinuità nel pensiero filosofico dell’India», Vrin, 1955, p. 192).

            Crimen è l’azione di colui che ha passato la soglia, di chi ha superato il varco della comunità civile, portandosi dietro quelle conseguenze irrogate dalla stessa comunità.

            Nell’ambito del diritto penale ci sono altre parole con significati simili a questo, inerenti cioè alla rappresentazione del fatto illecito come atto di deviazione dal sentiero comune di una collettività, di superamento di una soglia prestabilita dai consociati.

            Una di queste parole è «delinquente». Ovviamente essa trae origine dal latino dēlinquo, verbo composto della particella de con il verbo linquo, che significa «lasciare, abbandonare, lasciare dietro» («animam linquo» cioè «venire meno, perdere conoscenza»). Il Tommaseo nel proprio Dizionario fa discendere i termini delinquente e delitto dall’etimo latino di linquo.

            Delinquente, pertanto, è colui il quale devia da una condotta rispettosa delle leggi, abbandonando la retta strada della convivenza civile, e, conseguentemente, è il deviante rispetto ai viandanti, chi oltrepassa il confine segnato e, in ultima analisi, chi «animam linquit».

            Il crimine e il delitto dunque sono gli atti di colui che ha oltrepassato un confine sociale, lo ha valicato, si è posto fuori dalla collettività ed è lì a rappresentare per gli altri consociati l’esistenza stessa del limite da non superare (così Durkheim circa la centralità dell’interdetto nella definizione dei fenomeni sociali – Durkheim, «La divisione del lavoro sociale», Il Saggiatore, 2016).

La «turba infame» bandita dalla società civile

Nel 1585 fu pubblicato un libro enciclopedico, opera di un canonico, Tomaso Garzoni. Il libro portava il titolo «La piazza universale di tutte le professioni del mondo» e conteneva la descrizione di oltre quattrocento mestieri, professioni e condizioni sociali: dall’imperatore all’assassino, dall’astrologo allo storico, dal chirurgo alla prostituta (Garzoni, «La piazza universale di tutte le professioni del mondo», a cura di P. Cherchi, B. Collina, Einaudi, 1996).

Nell’opera veniva descritta la gerarchia di queste condizioni sociali che affollavano la società italiana di fine Cinquecento.

Tomaso Garzoni, «La piazza universale di tutte le professioni del mondo», 1585.

Il centro della Piazza era ovviamente riservato alle componenti nobili della società: ospitava il passeggio dell’aristocrazia e dei docenti universitari, il transito dei militari in alta uniforme. Circondavano poi la Piazza le botteghe di artigiani e commercianti.

La Piazza però nascondeva anche angoli oscuri, posti ai margini, che Garzoni definisce con espressione colorita «i cantoni del piscio», riferendosi alla diffusa pratica di orinare nelle aree più nascoste delle città (tanto che si usava dipingere sui muri il simbolo della croce con l’auspicio che la devozione impedisse tali condotte).

            Proprio in quei luoghi estremi, ai confini della Piazza, Garzoni colloca i soggetti più pericolosi, i sobillatori del disordine, gli assassini, i ladri, i delinquenti insomma, «questa turba infame a comun danno unita» (secondo le parole usate in una requisitoria tenuta il 6 settembre 1791 dal magistrato Cattanei di Momo davanti alla Corte d’appello di Mantova nei confronti di un gruppo di rapinatori).

            A partire dalla metà del Cinquecento, nelle Piazze di tutti gli Stati italiani e d’Europa vengono emessi numerosi bandi proprio contro coloro che potevano costituire minaccia per la convivenza civile, con l’ordine di abbandonare la città, di oltrepassare fisicamente il confine della comunità civile, confine già superato con le condotte illecite: «Bando che li vagabondi et altri perniciosi sgombrino et che se nettano le strade, et che li letami & immonditie si conduchino via» (Bando di Bologna, 13 Settembre 1574, in Zanardi, a cura di, «Bononia manifesta. Catalogo dei bandi, editti costituzioni e provvedimenti diversi, stampati nel XVI secolo per Bologna e il suo territorio», Firenze, Olschki, 1996).

            Nei secoli successivi gli strumenti di allontanamento del delinquente rispetto alla Piazza civile si succederanno nelle varie forme della condanna alle galee, poi dell’internamento in case di correzione e infine della detenzione in carcere (Foucault, «La società punitiva», Feltrinelli, 2016).

            Dunque la configurazione di un territorio «sicuro» contro la «turba infame» ha essenzialmente a che fare con l’attività di tracciamento di confini e di separazione di due territori: confini di inclusione e di esclusione, confini di assegnazione di identità.

            Per i sociologi la caratteristica essenziale di ogni confine è una: per funzionare i confini devono essere percepibili dai consociati, anche se si tratta di confini non necessariamente visivi. Un confine può venire tracciato in molti modi, può essere inciso su qualsiasi materia sensibile, ma può essere anche comunicato, narrato: la percettibilità del confine (e del confinamento di un soggetto criminale) rimane in ogni caso il carattere fondamentale perché il segno possa delimitare le soglie varcate dalla «turba infame» ma che non devono essere superate dagli altri consociati (E. Goffman, «The Nature of Deference and Demeanor», in «American Anthropologist», 1959, pp. 473–502).

            Il segno della esclusione dalla comunità può consistere anche nella marchiatura sul corpo dell’interdetto: in numerosi bandi del Settecento era previsto che colui che non avesse rispettato l’ordine di allontanarsi dalla città dovesse essere marchiato a fuoco. Il bando emanato nel 1764 a Firenze da Francesco Stefano di Lorena, per esempio, stabiliva che l’ordine di espulsione dalla città dovesse essere eseguito immediatamente, sotto pena per i disubbidienti «di essere pubblicamente frustati dal carnefice e di poi marcati in una spalla con ferro infuocato ed esitati in perpetuo dal Gran Ducato» (A. Dani, «Vagabondi, zingari e mendicanti. Leggi toscane sulla marginalità sociale tra XVI e XVIII secolo», in «Studi e Fonti di Storia toscana», 4, Firenze, Associazione di studi storici Elio Conti, 2018).

            Similmente il giurista francese Jean Bodin osservava che come un corpo malato va curato in primo luogo espellendo gli umori peccanti, oppure resecando le membra guaste, allo stesso modo nella comunità sofferente coloro che causano sommosse o rivolte e hanno deciso di oltrepassare i confini della convivenza civile devono essere rimossi, espulsi, in quanto non sono più funzionali alla salute del corpo sociale (Niccoli, «Immagini e metafore della società in età moderna», in «Quaderni del Dipartimento di sociologia e ricerca sociale», Università degli Studi di Trento, n. 54/2010, p. 10).

            In un testo molto approfondito sulla sociologia del processo penale si sottolinea che il pubblico riconoscimento di un crimine commesso da un soggetto, riconoscimento che può avvenire anche prima e a prescindere da una sentenza, costituisce una dichiarazione politica di confinamento e di definizione delle identità sociali nel collocamento interno o esterno al confine della comunità civile, cosicché la stessa inclusione sociale viene definita anche attraverso la narrazione dell’esclusione («it demarcates inclusion through discourse of the excluded. The common is not other, not strange, and not the enemy – the negation fortify a unity through net(oti)ations from within» – Pavlich, «Criminal Accusation: Political Rationales and Socio-Legal Practices», Ed. Routledge, 2018, pag. 16).

Il criminale come «escluso»: allegorie in un dipinto fiammingo.

L’esclusione dell’irrimediabile, la espulsione del delinquente fuori dalla società civile è stata oggetto, ovviamente, anche di rappresentazione in numerosi quadri antichi.

In Belgio, a Bruges, il Groeningemuseum ospita due grosse tavole dipinte da Gérard  David, dal titolo «Il giudizio di Cambise».

L’opera, datata 1498, fu commissionata al pittore dalle autorità comunali di Bruges con lo scopo di ricordare ai consociati la ineluttabilità della Giustizia. Tramite il ricorso all’allegoria David rappresenta il crimine come un atto che segna l’attraversamento di una soglia invisibile che porterà l’accusato a essere espulso dalla vita sociale, fino al punto da non essere più riconosciuto come essere umano (cfr. l’ampio approfondimento di Hans J. van Miegroet, «Gerard David’s “Justice of Cambyses”: exemplum iustitiae or Political Allegory?», in «Simiolus: Netherlands Quarterly for the History of Art»,  Vol. 18, No. 3, Ed. Stichting Nederlandse Kunsthistorische Publicaties, 1988, pp. 116-133).

Gerard David in queste due tavole raffigura il giudizio pronunciato da Cambise, Re di Persia, nei confronti di un funzionario corrotto di nome Sisamne.

            Seguendo l’analisi di van Miegroet, nella tavola di sinistra il Re in persona assiste alll’arresto di Sisamne, quest’ultimo circondato da funzionari e guardie.

Gérard David, «Il giudizio di Cambise» – tavola di sinistra

Nella medesima tavola, in alto a sinistra viene rappresentato un momento cronologicamente precedente: il momento in cui Sisamne accetta il denaro corruttivo. Costui infatti, nell’atto di compiere il «crimine», pone se stesso in uno stato di separazione rispetto alla comunità e nella tavola, infatti, viene raffigurato già ai margini di quella piazza fiamminga ove passeggiano i notabili, simile in tutto alla Piazza Universale che racconterà il Garzoni quasi cento anni dopo.

Tavola di sinistra – dettaglio.

Nella tavola di destra è rappresentata la condanna di Sisamne, il quale è raffigurato disteso su una tavola di legno mentre subisce la pena disumana dello scorticamento.

Gérard David, «Il giudizio di Cambise» – tavola di destra

Questa rappresentazione ha ovviamente un significato fortemente allegorico. La pelle costituisce il primo limite identificativo dell’essere umano, un confine che rende una persona fisicamente distinta dall’altra eppure appartenente alla medesima comunità, un confine che ci separa e ci accomuna. La rimozione della pelle di Sisamne, pertanto, rappresenta allegoricamente il momento in cui il «deviante» perde l’identità di consociato riconosciuto: ha oltrepassato il perimetro della società civile, si è spostato nella parte più buia della Piazza, e in tal modo perde la propria identità, rendendosi così «estraneo» rispetto alla collettività. E’ quel segno di sconfinamento, proprio di una giustizia umana e insieme divina.

            In alto a destra del medesimo pannello è rappresentato il figlio di Sisamne, che sostituisce il padre nelle funzioni di Corte e prende il suo posto sullo scranno, sul cui schienale è adagiata la pelle di Sisamne.

Tavola di destra – dettaglio.

Anche in questo caso lo studioso van Miegroet sottolinea come il messaggio allegorico sia chiaro: quelle spoglia umane rappresentano per i contemporanei di David il destino del «criminale», che è quello di diventare solo un misero simulacro, dalle sembianze irriconoscibili, cui la società civile guarda unicamente come monito lontano.

La Piazza Universale del Garzoni, così come le tavole di Gérard David sono solo rappresentazioni di un’epoca antica oppure raffigurano l’approccio culturale che anche la società contemporanea riserva alla questione «criminale» ?

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